I capanni da pesca storicamente nascono come risposta della gente di valle, di fiume e di mare per una necessità naturale di ripararsi e per lo sviluppo di un’attività che consenta di vivere come la pesca.
Di base il capanno da pesca è un prodotto povero: ne sono prova l’utilizzo dei materiali, le tecniche costruttive e il luogo dove è localizzato che ne evidenza l’uso per la sussistenza della popolazione che viveva in queste terre.
Quando le distanze o i tempi di pesca lo richiedevano, infatti, era necessario avere un rifugio temporaneo in cui conservare alcuni attrezzi, portare a termine le prime fasi di lavorazione di ciò che era stato pescato o trovare riparo durante la notte o le intemperie.
Con le loro grandi reti che si levano sugli specchi d’acqua nelle diverse zone umide, sono parte del patrimonio culturale regionale, caratterizzandone il paesaggio da molti secoli.
Presente sul territorio dal XV secolo, anche se le prime tracce dirette risalgono all’Ottocento, il capanno da pesca si è quindi evoluto insieme alla gente del posto, passando da una forma di sussistenza quotidiana data dalla possibilità di una pesca non professionale che integrava la dieta consentendo anche un piccolo commercio di pesce, a rifugio in tempo di guerra fino alla funzione ricreativa odierna.
Evoluti col tempo anche i materiali di costruzioni: dalle canna palustre si è passati prima al legno e falasco e poi ai prefabbricati e alla muratura.
Mentre la dicitura capanno da pesca fa riferimento alla struttura architettonica, gli altri sinonimi utilizzati, bilancione (nell’area emiliana e nel ferrarese) o padellone (in Romagna) si riferiscono all’attrezzo utilizzato per la pesca che prevede una rete quadrata ed un sistema a bilancia di sollevamento, periodicamente (da 2 ai 10 minuti) immersa nell’acqua e sollevata verticalmente.