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[Parlami di tER] Il Mulino della Vita

di /// Settembre 16, 2021
Tempo stimato di lettura: 5 minuti

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Parlami di tER è una serie di racconti dall’Emilia-Romagna. Sono sguardi d’autore gettati sulla regione da persone che son natie, vivono o semplicemente si sono innamorate di questa singolare, bellissima, terra con l’anima.
Se anche tu vuoi raccontare l’Emilia-Romagna che si vede dalla tua finestra sei benvenuto. Basta una mail a inemiliaromagna@aptservizi.com o un commento qui sotto!


Mulini del Po: si contano forse sulle dita, e ogni anno scemano, e per scoprirli bisogna andare per forza a cercarli, chi non percorra il fiume in barca.
Riccardo Bacchelli, Il Mulino del Po, vol. I, Mondadori, 1979, pp. 3

Riccardo Bacchelli culla il lettore sin dalle prime pagine del suo romanzo, Il Mulino del Po, portandolo altrove, in luoghi d’altri tempi, ma sempre con delicatezza, quasi prendendolo per mano. Coinvolgente è la passione di Bacchelli per i mulini lungo il Po e per le storie e i miti che nascono accanto alle macine o tra le terre acquitrinose delle golene.

Innamoratosi di quei luoghi e di quelle vite, racconta nel suo poema molinaresco le storie di calafati e di mugnai, di donne e di contadini, di contrabbandieri e uomini per bene. Ma dopo tutti i racconti, l’immagine che rimane è sempre quella del mulino, che fermo e maestoso resta dinanzi agli occhi svagati dei viandanti ignari; dinanzi ai miei, non ignari […] e ogni volta vi tornai commosso dal pensiero delle molte cose e dei tanti fatti trascorsi e inveterati
(Riccardo Bacchelli, Il Mulino del Po, vol. I, Monadori, 1979, pp. 3-4.)

Quando hai una famiglia che è nata sulle sponde del Po, è difficile non pensare di tornarci un giorno, da grandi.
I miei nonni, mia zia e mia mamma sono nati e vissuti a Ro e dintorni per molti anni prima di trasferirsi nella provincia di Milano, dove sono nato e cresciuto io.

Fin dalla mia prima visita mi sono innamorato dei luoghi del romanzo bacchelliano e in modo particolare del Mulino sul fiume Po che ha sempre suscitato in me grande curiosità: mi sono sempre chiesto che cosa facesse di notte, quando la gente rientra a casa e le luci si spengono nell’area golenale, quando i rumori del giorno dissolvono, incrociandosi con quelli della notte. Quando anche la natura va a dormire e lui rimane solo sulla sponda del fiume, pronto ad addormentarsi cullato della corrente. Ad accompagnarlo nel sonno le tante storie di persone che almeno una volta hanno provato a raccontarsi sedute al suo fianco.

A volte mi capitava di andarlo a trovare partendo da casa a piedi o in bicicletta, passando per le campagne di Ro. La mia mente si preparava al viaggio e sapeva che la mia meta era là, ed era sempre la stessa. I rumori della città scomparivano e lasciavano spazio ai discorsi della natura.
Il Mulino era sempre là ad attendermi e sembrava riconoscermi ogni volta che mi rivedeva: “Ne è passato di tempo, era un po’ che non ti si vedeva da queste parti, amico”. Sì, siamo diventati amici, io e lui. A lui ho affidato la mia barca con la quale ero solito andare a pescare col nonno, approfittando delle giornate di sole che l’estate offriva. A lui ho affidato anche i miei pensieri e l’ho sempre considerato un essere animato, dotato di pensiero e sentimenti, molto più di tante persone.

La riflessione porta a fare un paragone fra l’essere umano e il Mulino. Come si può non pensare che il Mulino sia un essere dotato di anima? Cullato dall’acqua del Grande Fiume soffre dei cambiamenti climatici, delle piene e delle secche del Po, esattamente come gli uomini sono soggetti a improvvisi cambiamenti d’umore. Il suo cuore batte e macina il grano, scova la neve dei semi, che bianca allatta i popoli.

Un giorno ebbi l’idea di portarlo via con me, di rapirlo, catturarlo e imprigionarlo in un nastro, elevandolo quasi a figura mitologica. Ne Il Mulino della Vita, breve racconto che io ho definito di poem-fiction, ho voluto paragonare il Mulino all’essere umano che davvero sembra doversi inchinare al suo cospetto.

Il film inizia con la presentazione del luogo, ancora non ben definito. Capiamo che siamo su un fiume, che il mare è ad est e che la fauna è quella tipica di uno scenario fluviale, ma non è ancora chiaro quale sia il soggetto della storia. In realtà siamo a Ro, in provincia di Ferrara. Qui l’argine fa da confine col Veneto.

Qui si è combattuta la seconda Guerra Mondiale e il ponte che collegava Polesella a Ro era uno dei punti strategici del combattimento. Prima sul fiume passavano i cadaveri dei tedeschi, ora, sotto a quel ponte, vive il Mulino.

Il film incarna la dicotomia Uomo-Mulino. Il primo creato dalla natura ma poco rispettoso della stessa, l’altro creato dall’uomo, ma figlio della natura con la quale si fonde. Il Mulino appare per la prima volta nel film paragonato a un germoglio, metafora della nascita della vita, essere ancora fragile e solitario. Un germoglio imponente, che domina il fiume dalla riva, sia di giorno che di notte. Un germoglio che impara a vivere, solitario, in mezzo al fiume, a contatto con l’uomo che cerca in lui conforto.
L’essere umano fa il suo ingresso nel film sotto forma di figura femminile. La donna, nel mito greco della nascita dell’umanità, fu modellata da Efesto su ordine di Zeus ed era portatrice di un vaso contenente i mali del mondo che liberò per errore sulla Terra. Una volta aperto, nel vaso rimase l’unico dono buono che Zeus aveva racchiuso al suo interno: l’Elpis, la speranza.
La ragazza del film sembra essersi presa carico dell’espiazione del genere umano: la difficoltà di un’esistenza ormai divenuta opprimente la spinge a togliersi la vita nel fiume, sola e senza alcuna speranza. Ciò che per il Mulino, temprato dal clima e dagli anni, è la base dell’esistenza, è per lei causa di morte.

Il Mulino fluttua, sempre, dolcemente, baciando la riva, in ogni periodo dell’anno, cullato dall’acqua. Quante volte ci siamo fermati al suo fianco a pensare, a guardare il fiume. Quante volte abbiamo liberato la mente con lui al nostro fianco. Ci fermiamo a riflettere, siamo persi. Gli uomini pensano, costantemente, alle incertezze della loro esistenza, e non si danno pace. Il Mulino assorbe tutti i loro pensieri, i loro problemi, i loro segreti più intimi. Lui ascolta, riflette, non risponde. Bisogna elevare la conversazione a un livello superiore, a un livello quasi trascendentale per comunicare con un essere non dotato di parola. Bisogna conoscerlo profondamente per interpretare i suoi messaggi. Quando ci si siede al suo fianco e ci si abbandona a lui, bisogna saper aprire la mente per ascoltare le risposte che fornisce.

Chi passa per questi luoghi può decidere di rimanere indifferente e trattare il Mulino come un pezzo d’antiquariato, alla mercé dell’uomo che l’ha sempre sfruttato per far nascere prodotti con i quali sfamarsi ed arricchirsi. Oppure può iniziare ad ammirarlo da lontano, dall’inizio della discesa che scorre verso il fiume. Può iniziare ad amare il suo tetto fatto di paglia e, scendendo pian piano con lo sguardo verso il Po, scoprirlo, lentamente, come quando si ammira un albero dalla chioma alla radice.

Io ho scelto la seconda. E come disse Lazzaro Scacerni: “Se ho da finire in fiume, ha da essere il Po”. (da Riccardo Bacchelli, Il Mulino del Po, vol. I, Monadori, 1979, pp. 33).


Dario Di Agostino si laurea nel 2006 all’Università IULM di Milano in Scienze e Tecnologie della Comunicazione. Trasferitosi a Madrid, frequenta un corso biennale di Regia Cinematografica e Televisiva. Ha collaborato con Canal + Spagna e lavorato per Sky Italia e per la RAI, dove tutt’ora è montatore video.

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