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[Parlami di tER] Scopri Ferrara, la signora delle nebbie

di /// Settembre 16, 2021
Tempo stimato di lettura: 4 minuti

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Parlami di tER è una serie di racconti dall’Emilia-Romagna. Sono sguardi d’autore gettati sulla regione da donne e uomini che son nati, vivono o semplicemente si sono innamorati di questa singolare, bellissima, terra con l’anima. Se anche tu vuoi raccontare l’Emilia-Romagna che si vede dalla tua finestra sei benvenuto. Basta una mail a inemiliaromagna@aptservizi.com o un commento qui sotto!


Ferrara è la città più bella del mondo.

Essendo nato a Ferrara e trasferito a Bologna che ancora non camminavo, ho il privilegio di poterla vivere in due modi: da turista, perché non ci capito spesso. Da indigeno, perché comunque ho onorato le mie origini tra vacanze estive e domeniche.
Passavo quindi settimane in casa dalla nonna, che abitava in via delle Vigne, già via Schioccabecco. Non ho mai pensato di fare ricerche toponomastiche. Via delle Vigne è a 5 minuti di bicicletta dal Duomo, come tutta Ferrara del resto. Svoltando da Porta Mare si entra in questa via dove in fondo sta appoggiato un austero cancello in ferro, già visibile dall’imbocco. Di questo cancello parlerò dopo.

MEMORIA

Voglio indugiare un po’ sui miei ricordi, conscio del rischio. Mia nonna Renata abitava al numero 12. Al piano terra si trovava la sua cucina, che fungeva anche da salotto, su un corridoio su cui si affacciavano altre due stanze con la stessa destinazione d’uso, rispettivamente appartenenti alle signore Graziella e Argia, accento sulla «i».
La prima era giovane – anche se io bambino la vedevo vecchissima – e unica della via a possedere un passaporto per l’indipendenza, una Fiat 600 bianca. La signora Argia invece era secca e bionda tinta, mi ricordava i film di paura che non osavo guardare per il timore di non dormire la notte.
Tra lei e mia nonna vigeva un conflitto dai toni foschi le cui ragioni mi sono sempre state oscure, mentre la signora Graziella (anzi «signorina» adesso che ci penso) era un gioiello di nobiltà. Non avendo la tele, tutte le sere veniva ospitata dalla nonna, con cui faceva «un bridge» (in realtà una scala quaranta con strane regole), un bicchierino di anice, e guardava la trasmissione delle otto e mezza, che fosse un film con Tognazzi (mia nonna lo odiava – “è un pornografico”) o una partita di Wimbledon. Si sono sempre date del lei, e anche io, con rispetto.

Invece le camere da letto stavano tutte ai piani di sopra. Quindi per andare a letto ciascuna signora la sera spegneva la luce, chiudeva la porta di sotto a chiave e saliva le scale comuni. Il bagno era in cortile. C’era solo la turca, periodicamente ritinteggiata con vernice a smalto gialla. Senza riscaldamento, come la camera da letto. In inverno, ci si preparava a salire con un pigiama di flanella e alcuni maglioni di lana, una cuffia e certe calze spesse un centimetro, per poi infilarsi sotto quattro coperte.

CIMITERO

Di giorno si giocava in strada, come narra ogni racconto della memoria che si rispetti. Io attendevo mio cugino, e quando non veniva ripiegavo sulla seconda scelta, un bambino che abitava dietro al cancello grande di cui ho scritto prima. La sua famiglia era custode del luogo, e il luogo era il cimitero ebraico. Giocavamo sul retro della casa, quindi nel cimitero, e avevamo due principali occupazioni: fare gare in bicicletta e giocare a pallone.
I marciapiedi li ricordo ancora lisci e stretti, buoni per derapate, ed erano lunghi abbastanza per prendere velocità. Confluivano verso un edificio che somigliava vagamente all’idea che avevo di una chiesa, senza però santi che volgevano sguardi verso l’alto, e con una specie di tavolo in granito con un ripiano alto almeno mezzo metro. Quello un po’ mi dava soggezione.

Quando giocavamo a pallone, lo facevamo senza remore. Il cimitero era il nostro flipper; se non c’erano visite, bombardavamo le lapidi con vigore, gioiosi infanti un po’ sovrappeso nel giardino dei morti. Qui mi verrebbe da trovare un significato assoluto alla scena, ma non ne ho i mezzi espressivi.

Il pomeriggio tornavo dalla nonna a fare merenda, l’idea di mangiare Nutella al cimitero non mi dava lo stesso gusto. C’era sempre una spoletta di pane – ovviamente ferrarese – che riempivo appunto di crema alla nocciola, o di prosciutto crudo. Mia nonna, credo memore della fame nei tempi grami, mi esortava a mangiare, e io volentieri la assecondavo; da qui il sovrappeso a cui accennavo. Mi manca tanto, mia nonna.

MURI

Il cimitero era un luogo dietro un muro, credo l’unico che mi sia stato dato di valicare nei miei soggiorni ferraresi. Per me Ferrara rimane una città nascosta, dai muri di muro o dai muri di nebbia, che si ascolta più che vederla, si ascolta nei silenzi ovattati impossibili in una qualsiasi altra città che non sia Ferrara.
Guardando Il Giardino dei Finzi Contini però ho un po’ maledetto De Sica (il padre, non Cristian) per avermi svelato un al di là del muro, un po’ come se Leopardi a un certo punto venisse fuori rivelando che dietro la siepe c’era un agriturismo.

Ancora oggi preferisco non sapere; prendo Ferrara a dosi omeopatiche, sono un malato di nostalgia che non vuole realmente guarire, che ha paura di vedere oltre il muro perché magari poi dietro chissà, non c’è poi nulla.
Preferisco che resti la «mia» città magica, immaginare, sentire, perché io straniero indigeno posso sentire la città che vibra, farmi attraversare dalla nebbia, non quella finta filmata di Antonioni, ma quella vera schizzata di Roberto Biavati, che ha disegnato La signora delle nebbie.


Nicola Bonora fa un mestiere che non è mai stato in grado di spiegare ai suoi genitori (legale, comunque). Lavora a Bologna per la web agency mentine.net e non si è mai trasferito a Milano perché, in fondo, non ce n’è bisogno. Il suo account twitter è @nicbonora.

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