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[Parlami di tER #73] La memoria dei luoghi

di /// Agosto 31, 2021
Tempo stimato di lettura: 5 minuti

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Parlami di tER è una serie di racconti dell’Emilia-Romagna.
Sono sguardi d’autore gettati sulla regione da donne e uomini che son nati, vivono o semplicemente si sono innamorati di questa singolare, bellissima, terra con l’anima.
PS: Se vuoi raccontare l’Emilia- Romagna che si vede dalla tua finestra sei benvenuta/o. Basta una mail a  <turismoemiliaromagna[at]gmail.com> o un commento qui sotto!




A più di sei mesi dal sisma che ha colpito la nostra regione, un racconto breve. Per non dimenticare. Mai.



Una maglietta gialla, slavata e stropicciata. Un paio di jeans da rapper, sempre troppo larghi. Le All Star ai piedi. Quelle verdi, le sue preferite. I capelli legati svogliatamente in una piccola coda. L’evidenziatore giallo in una mano e gli appunti di diritto commerciale nell’altra. Gli occhi rossi un po’ per il troppo pianto, un po’ per quello strano vento freddo che lo aveva inaspettatamente travolto mentre pedalava come un matto durante il tragitto.

Seduto sugli scalini del negozio di antiquariato di fronte alla sua Università ancora chiusa per verifiche strutturali, pensò.

Pensò che era sempre stato un ragazzo distratto. Troppo distratto. Convinto che esistesse un’eternità dei luoghi. No, non delle persone. Questo lo aveva capito bene, dopo la morte dei bisnonni. Ma i luoghi, quelli erano diversi, per lui. La chiesa dove si erano sposati i suoi nonni cinquant’anni fa, immortalata nella foto con quella improbabile cornice d’argento sul comò all’ingresso, era sempre stata una certezza. Col suo campanile che svettava fiero verso il cielo. Le lezioni di catechismo. La prima comunione e la cresima. Lei era sempre lì. Lei avrebbe dovuto essere lì, per sempre.

L’agriturismo che faceva i tortellini in brodo più buoni del mondo. Con la sfoglia spessa e il ripieno ricco, il brodo fitto e saporito. Quante volte si era seduto al secondo tavolo sulla destra, di fianco alla porta della cucina, assieme ai suoi genitori e a sua sorella. La domenica sera, di solito. Il loro rito. Un piccolo
incoraggiamento per affrontare la settimana col cuore più leggero.

E poi, la casa di campagna. Una piccola stradina costellata di vecchi fienili e cani randagi sempre pronti a rincorrerti portava al suo angolo di paradiso dove aveva passato le estati più belle. Spesso ci andava a suonare anche d’inverno, col gruppo. Sfidando le nebbie più ostili raggiungevano il loro nido, il garage.
Dove fra gli attrezzi del nonno e il trattore suonavano come pazzi, come se non ci fosse un domani.

Già, l’eternità dei luoghi, pensò. Pensò che eterni non erano più. Una scossa violentissima li aveva spaventati e travolti alle quattro di mattina mentre dormivano, una notte di maggio. Cullati da quel cielo nero pieno di lentiggini luminose.

E poi un’altra, quando meno se lo aspettavano. Nove giorni dopo. Quando già avevano tirato un sospiro di sollievo. Siamo sopravvissuti. Pensiamo al domani, che ci porterà solo cose belle. Teniamoci bene ancorati alla terra, sistemiamo i nostri mattoni. È passata. E invece.

Quel pomeriggio di due giorni fa aveva preso la macchina, guidato verso la campagna, parcheggiato davanti alla casa dei nonni e inforcato la bicicletta. Voleva sentire l’odore del terremoto. Respirarlo e farlo suo. Vedere la vita del dopo.

Aveva pedalato con trepidante attesa verso i suoi luoghi. I prati erano verdi, di un verde abbagliante. Il sole padrone di un cielo di giugno meravigliosamente azzurro. Ma proprio azzurro. Le nuvole biancolatte sembravano lo zucchero filato del luna park di un ferragosto qualsiasi al mare. L’eternità dei luoghi. Si era
davvero illuso potesse esistere davvero e no, quelle immagini alla televisione che gli avevano fermato il cuore e che volutamente aveva guardato solo con la coda dell’occhio, non potevano essere vere. E invece.
Il centro del paese era transennato. Il campanile della chiesa, la sua chiesa, troncato a metà. Come un castello di mattoncini lego fatto e disfatto da un bambino. La casa di Maria, sì, proprio quella che aveva ottant’anni da una vita ormai e ti preparava la conserva di pomodoro per le sere d’inverno, non c’era più. E Giovanni, che lavorava nella fabbrica di infissi? Giovanni è morto. Schiacciato da una trave.

Non è possibile. Dove era finita allora l’illusione del per sempre nella quale si era cullato per ventitrè anni?

Protezione civile, vigili del fuoco. Sirene delle ambulanze. Tende davanti alle case. Macerie ovunque. Odore di polvere. Di distruzione. Di niente.

Non aveva portato la reflex con sé, quel pomeriggio. Lui amava fare foto, da sempre. Le sue foto erano il luogo migliore dove aveva custodito i ricordi più belli, per tanti anni. Sempre e solo nostalgia rassicurante. Un edificio dall’architettura particolare. Il mare d’inverno, col suo cane che corre sulla battigia con un
bastone in bocca. Spicchi di viaggi che erano emozioni indimenticabili da rivivere ogni volta che avrebbe voluto semplicemente fissando lo scatto.

Non aveva mai volutamente fotografato il disagio, la morte, la perdita. Meglio chiuderli a chiave in un cassetto, sperando di dimenticarli presto.

Però, mentre se ne stava lì seduto su quegli scalini incapace di proseguire con lo studio, le gambe stese e i piedi incrociati, le All Star verdi dai lacci rigorosamente slacciati, pensò.

Pensò molto.

Pensò che quello che aveva voluto vedere coi suoi occhi era uno schifo. Ma uno schifo meraviglioso.

Che no, non esisteva un’eternità dei luoghi. Bensì, una memoria dei luoghi. E quella memoria voleva farla sua per sempre. Non voleva dimenticare, non voleva che la gente dimenticasse.

Aveva fame. Fame di verità. Voleva che il mondo vedesse come erano caduti gli emiliani. E come si sarebbero rialzati. Doveva fare qualcosa per la sua terra, che lo aveva visto nascere e crescere, cadere e rialzarsi. Tante volte. Ora era lei ad avere bisogno di lui. Per tutta la vita si sarebbe portato nel cuore
quel boato mostruoso che lo aveva svegliato il venti di maggio. La terra urlava, e aveva catapultato tutti dentro ad un enorme frullatore. Lui non era nemmeno riuscito ad alzarsi dal letto rimanendo inchiodato al materasso, gli occhi sbarrati e i pugni serrati. Forse aveva perfino pregato. Pregato che tutto finisse il prima possibile.

E poi, le risate dei bambini che giocano a calcio fra le tende. I sorrisi e la forza dei soccorritori che stavano ancora incessantemente lavorando notte e giorno. La vita al campo. La convivenza forzata. La solidarietà.

Eccola, la via di fuga. Avrebbe immortalato la vita del dopo terremoto. Le piccole storie che nessun telegiornale, nessuna edizione straordinaria avrebbero mai raccontato e mostrato. Erano tantissime, pronte ad aspettare la sua sensibilità, il suo occhio curioso. Voleva pensare in grande e sì, avrebbe fatto respirare al mondo intero vita, distruzione e poi ancora vita nella terra emiliana. Coi suoi scatti. La memoria del luogo che va oltre l’eternità del luogo.

Si sentiva pronto, come un soldato deciso a combattere per la patria. Avrebbe pedalato verso il fronte, armato di macchina fotografica. Lui, la reflex, le macerie. I sorrisi, la speranza, la ricostruzione.

Mise appunti ed evidenziatore nello zaino e si alzò. Avrebbe percorso in bicicletta i 10 chilometri che lo separavano da Finale Emilia, la prima tappa della sua missione.

Lo vedete là, in lontananza, come sfreccia veloce fra le stradine della Bassa emiliana? Sì, è proprio quel ragazzo con gli occhiali da sole e la reflex al collo.

Paolo. Il soldato della memoria.



Questo racconto ha accompagnato Stories4Change, la mostra a Palazzo Valentini (Roma) delle foto di Shoot4Change del 2012, comprese quelle di Shoot4Emilia, progetto volto a documentare attraverso la macchina fotografica la ricostruzione delle zone terremotate emiliane. L’autrice invece di pubblicare questo racconto sul suo blog ha deciso di donarlo a noi; un grazie di cuore a Francesca.

Francesca Rabitti nasce e cresce a Modena dove attualmente vive, dopo una parentesi milanese. Interprete e traduttrice, ha un blog dove raccoglie I suoi pensieri semiseri da un anno ormai. Scrive per l’organizzazione internazionale no profit Shoot4Change. Ama leggere, scrivere, viaggiare, comperare scarpe, andare a New York, mangiare cioccolata, dormire. Non necessariamente in quest’ordine.

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